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VI Domenica di Pasqua

2022-05-22 17:51

P. Stefano Tamburo

Commenti settimanali,

Atti 10,25-27.34-35.44-48; 1Gv 4,7-10; Gv 15,9-17 Amanti Parliamo d’amore, vi va? Ne abbiamo bisogno perché sappiamo che è l’amore che muove il mondo.

Atti 10,25-27.34-35.44-48; 1Gv 4,7-10; Gv 15,9-17

 

Amanti Parliamo d’amore, vi va?

 

Ne abbiamo bisogno perché sappiamo che è l’amore che muove il mondo. Ne abbiamo bisogno in questi tempi cupi e logoranti di pandemia in cui la luce viene insediata dall’ombra dello sconforto e del vittimismo. Ne abbiamo bisogno anche se nella vita il nostro desiderio di amare e di essere amati è rimasto frustrato, incompiuto, castrato. Ne abbiamo bisogno perché, di questi tempi, dietro al termine amore si nasconde di tutto, anche sentimenti che con l’amore non hanno niente a che vedere. Ne abbiamo urgente bisogno per capire come davvero funzioni l’amore. E chiediamo all’Amore di parlare di amore. All’Amato di insegnarci ad amare.

 

Dimorare

Il primo messaggio del vangelo di oggi è semplice: lasciamoci amare. Tutto il vangelo conduce a questa unica, disarmante verità: siamo amati. Amati da Dio che ci ha voluti, pensati, siamo preziosi ai suoi occhi. Siamo amati a prescindere. Perciò possiamo cambiare, fiorire, imparare. Non è facile credere questo, lo so bene: molti, fra noi, fanno esperienza di mediocrità, di dolore, di solitudine. Il mondo ci ama solo se abbiamo qualcosa da dare, Dio ci ama non perché siamo amabili, ma perché ci ha creati. Tutta la nostra vita consiste nello scoprirci amati. E Dio, l’unico, non ci ama perché siamo buoni ma, amandoci, ci rende buoni. Dio non può che donare il suo amore, dicevano i Padri della Chiesa, fa parte della sua natura profonda. E se già abbiamo scoperto di essere amati, Gesù insiste: dimorate in questo amore, restateci. Dopo avere cercato Dio, affascinati da qualche credente credibile, dopo avere scoperto che, in Gesù, anche noi siamo suoi figli, tutta la nostra vita diventa attesa di pienezza, manifestazione dell’amore di Dio. E possiamo dimorare, dice il Signore, solo osservando i comandamenti. Stride, questa richiesta, la parola “comandamento” ci rimanda alla regola, alla norma, alla sanzione. No, perché Gesù è venuto a donare un nuovo “comandamento”: imita il Padre che ti ama e riama te stesso, gli altri, Lui. I “comandamenti”, allora, non diventano una serie di norme da osservare per meritare l’amore, ma il modo di manifestare questo amore. Diventano la forma dell’amore, come è il fiore donato all’innamorato che rappresenta il sentimento che proviamo. Quando mi occupo di mio figlio, lo vesto e gli preparo la colazione per portarlo a scuola, non sto seguendo il protocollo del buon genitore, sto esplicitando nella concretezza il fatto di occuparmi di lui, di volergli bene!

 

Mio comandamento

Quale comandamento devo osservare per dimorare in Dio? Quello “nuovo” diventa “mio”, dice Gesù. Un bel passaggio: dalle dieci parole di Mosè alle 613 precetti dei farisei, al comandamento più grande, amare Dio e il prossimo, al comandamento nuovo: quello di amare come Gesù ci ama. Gesù ora, ed è la comunità che lo ha già celebrato risorto che lo capisce, propone un comando che non è più solo “nuovo” ma “mio”. Gesù ama fino al dono di sé sulla croce, fa ciò che dice e che chiede di fare ai discepoli. Amare come egli ci ha amati significa entrare nella logica del dono totale di sé, senza condizioni. Un amore totale che redime e salva questo mondo egoista e piccino. Cercare di imitare questo amore, lasciandolo fluire in noi (cioè non mi sforzo di imitare Gesù, mi lascio amare… e il suo amore si riversa sugli altri, perciò frequento Gesù con assiduità!) ci riempie il cuore di gioia. Un amore, come ci diceva Gesù domenica scorsa, che non è egoista e che non si lascia divorare dall’altro, una vita donata e ripresa, una relazione consapevole che non lascia l’emozione dominarci ma diventa consapevole scelta di amare. Non la felicità usa e getta che il mondo ci vende (sempre a caro prezzo) ma la gioia che diventa consapevolezza, come quella dei discepoli che incontrano il risorto e si convertono alla gioia. Posso anche avere una vita sfortunata e intessuta di dolore, ma la gioia permane, perché so di essere partecipe di un grande progetto d’amore che mi coinvolge.

 

Un amore più grande

Meglio: non si tratta di uno sforzo. Amare imitando il Maestro, ma di un fluire. Amatevi dell’amore con cui siete amati. Io non sono capace di amare le persone antipatiche, macché. Nemmeno sforzandomi. Ma amare con l’amore con cui sono amato, si. Come una vasca che si riempie e deborda. Non amare di uno sforzo ma condividere l’amore di cui faccio esperienza. Esiste l’amore, lo sappiamo: non occorre essere cristiani per amare. E ci sono persone non credenti che amano bene. Poi c’è l’amore più grande. Quello che dona vita, quello che vivifica, quello che dà vita. A volte i nostri amori sono mortificanti e mortiferi. Quello di Cristo che ricevo, più grande, è vivificante e libera.

 

Figli e frutti

Questo amore che fluisce ci fa scoprire di essere figli, non servi. Figli di Dio, a sua immagine proprio perché capaci di amare. E l’amore genera, porta frutti di redenzione e di vita eterna. Nella vita possiamo diventare dei grandi scienziati, dei genitori straordinari, delle rock-star… ma più che essere figli di Dio non saremo mai, e lo siamo già! Amare porta frutti, in noi e intorno a noi e Dio gioisce della nostra gioia. Siamo la gioia di Dio!

 

Amare significa, per Pietro, arrendersi all’evidenza che non possediamo Dio. E che tutte le nostre (sane e sante) strutture non sono niente quando arriva lo Spirito. Amare significa accorgersi che dobbiamo cambiare idea e far uscire Dio dal contenitore in cui lo rinchiudiamo. Perché questo amore Dio non lo riserva ai pochi ma a tutti.

 

Questo sì, lo posso fare.

Lasciarmi amare.

Amare dell’amore che ricevo.

Lasciare fluire l’amore di Dio in me.

 

P. Stefano Tamburo, ofm

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